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Il postmodernismo nelle narrazioni di Wallace e King

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Questo articolo è uscito nell’inserto «Ragioni» del «Riformista».

David Foster Wallace e Stephen King hanno scritto un unico grande romanzo. Uno straordinario ritratto dell’America che permette di fare il punto sullo stato attuale della letteratura americana. In Italia, i loro due ultimi libri sono usciti insieme e questa semplice coincidenza svela però il legame profondo tra i due testi. Il re pallido di Wallace (Einaudi, pp. 714) e 22.11.’63 di King (Sperling&Kupfer, pp. 780) sono perfettamente complementari. Uno è lo stile, l’altro è la trama. Uno è l’esempio perfetto di letteratura sperimentale, l’altro è l’incarnazione della letteratura “di genere”. Uno è il trionfo del virtuosismo esibito per l’acclamazione dei critici, l’altro è il concentrato di intrattenimento che i lettori sognano da un plot. Quello di Wallace è un romanzo incompiuto, con la trama irrisolta (non solo perché è incompiuto), mentre l’altro è una lezione sulla costruzione di un impeccabile intreccio lineare. Wallace usa l’espediente meta-letterario per mostrare che la letteratura è finzione, King usa la meta-letteratura per mostrare che fuori dal cerchio magico della letteratura c’è solo altra letteratura.

Sono, evidentemente, le due facce del romanzo americano. Il protagonista del libro di King trova un varco temporale e viaggia nel passato. Torna nel 1958 con la missione di fermare Oswald, l’uomo che nel giro di cinque anni avrebbe assassinato il presidente Kennedy.

Il re pallido è un testo tremendamente discontinuo, pieno di biforcazioni e, come molti testi di Wallace, vortica tra digressioni e malinconia, sprofondando nei precipizi del cuore e fendendo la marea nera che a volte dilaga nella mente umana. Il romanzo di Wallace, stando a ciò che afferma all’interno delle stesse pagine del romanzo, sarebbe «più un libro di memorie che una storia inventata». E infatti, il libro ruota intorno al periodo che Wallace trascorse all’Agenzia delle Entrate di Peoria, nell’Illinois, lavorando per il Centro controlli delle tasse. Racconta dunque «uno dei lavori impiegatizi più noiosi e monotoni d’America». Wallace ingaggia una sfida con se stesso: narrare qualcosa di «spettacolarmente noioso». Ma qual è il vero tema del libro? È davvero la noia? C’è un passaggio che fornisce una chiave di lettura: «Per me, almeno a posteriori, la domanda veramente interessante è perché la noia si dimostri un impedimento così efficace all’attenzione. Perché ci sottraiamo alla noia. Forse perché la noia è intrinsecamente dolorosa». L’interesse di Wallace è la condizione umana, la cognizione della fragilità: «La nostra piccolezza, la nostra insignificanza e natura mortale, mia e vostra, la cosa che tutto il tempo cerchiamo di non pensare direttamente, che siamo minuscoli e alla mercé di grandi forze e che il tempo passa incessantemente e che ogni giorno abbiamo perso un altro giorno che non tornerà più e la nostra infanzia è finita e con lei l’adolescenza e il vigore della gioventù». Ecco la spina nel fianco della sua narrativa. Ecco ciò che striscia in tutti i suoi racconti: una sconfinata amarezza mista al febbricitante desiderio di un’illusione, sentimenti che palpitavano e si alternavano già in Infinite Jest, e che pulsano dietro ad ogni pagina wallaciana. È l’inquietudine dell’uomo che cerca la salvezza. È la lotta per resistere all’oblio. Se la letteratura salvasse, Wallace oggi sarebbe vivo. Ma la letteratura, che opera tanti miracoli, non salva.

Il re pallido è un libro ai limiti dell’illeggibilità (ma d’altronde è meravigliosamente illeggibile anche l’Ulisse di Joyce). Wallace è l’ultimo interprete di una letteratura americana consapevole. Viene dopo scrittori enormi e faticosi, impregnati di teoria, che rispondono ai nomi di John Barth (il maestro da cui Wallace prese le distanze in A occidente l’impero volge il suo corso), Donald Barthelme e Thomas Pynchon. Gli stessi autori che hanno forgiato Mark Lyner o George Saunders. Alcune pagine del Re pallido raggiungono punte di lirismo letterario sublimi. Wallace infatti è sempre sublime quando si lascia rapire da crepuscoli strazianti, quando la nostalgia iniettata nella pagina raggiunge toni lancinanti e tutta la narrazione è sommersa dall’odore dei pini, dal ronzio delle falciatrici, o quando è rischiarata da serate limpide in cui si riesce a leggere alla luce della brace. Altrove, il romanzo ristagna. Il viaggio nella noia si fa noiosissimo. Il lettore, legato e imbavagliato nella mente di Wallace, è costretto a seguirlo dove vuole lui: che siano situazioni comiche, psicologie imbarazzanti, derive enciclopediche, o lente progressioni che vivisezionano ininfluenti brandelli di realtà.

Il romanzo di King e quello di Wallace rappresentano di fatto i due sbocchi della letteratura americana degli ultimi cinquant’anni. Sono i due esiti della migliore letteratura postmoderna. Fredric Jameson, nel testo che gettò luce sulla cultura postmoderna, diceva che per il postmoderno la Storia è ridotta a simulacri: «la cinquantezza degli anni Cinquanta, la sessantezza degli anni Sessanta». Nel romanzo di King, il passato è evocato solo attraverso l’odore del talco, la brillantina, il fumo di sigarette, gli hula-hop, i ventilatori accesi. Il viaggio nel tempo di Wallace lo porta invece negli anni Ottanta. Tutto è precisissimo eppure la Storia può dissolversi tra le dita: «Mi sembra di ricordare che nel 1976 mio padre avesse predetto espressamente la presidenza di Ronald Reagan inviando addirittura una donazione per la sua campagna anche se, a ripensarci, mi pare che Reagan non fosse nemmeno in lizza nel ‘76».  Uno racconta l’evento più importante della storia americana, l’assassinio Kennedy, l’altro si perde nell’anonimato della provincia per raccontare pallidi sovrani della burocrazia, eroi nascosti nel tedio del quotidiano.

Non è un caso, comunque, che leggendo questi due romanzi, si intraveda in controluce, dietro entrambi, il maestro del postmoderno americano: Don DeLillo. La sua letteratura autorizza e permette entrambe le prove. Dietro l’omicidio Kennedy di King si sente l’eco di Libra, dietro la trama frammentata del Re pallido c’è l’esperienza di Underworld. Nel volume appena pubblicato, La letteratura americana dal 1900 a oggi (Einaudi) – un dizionario per autori a cura di Luca Briasco e Mattia Carratello – si dà una definizione molto precisa di DeLillo: «L’opera di Don DeLillo si configura come un monumentale affresco dell’America contemporanea, con i suoi linguaggi, miti, rituali, misteri, scevro tuttavia del disimpegno e della mancanza di profondità spesso associati al postmodernismo». Esiste un postmoderno buono. Ci sono scrittori postmoderni tremendamente profondi, che mettono al centro la coscienza individuale inquadrandola nel contesto delle trasformazioni storiche, culturali e dell’immaginario. Esiste, in letteratura, un postmoderno virtuoso, d’ampio respiro, che perfora la realtà, o almeno la insegue. I padri di King sono Edgar Allan Poe, H.P.Lovecraft, Richard Matheson.

Il pubblico di lettori, almeno in Italia, è spaccato in due. I lettori di Wallace non leggono King. I lettori di King non leggono Wallace. Sbagliano entrambi. Nel libro di King non si troverà mai una frase come: «La sera dal parcheggio della roulotte le colline prendevano un bagliore arancio sporco e i suoni degli alberi viventi che esplodevano al calore dei falò giungevano forti, e il rumore degli aerei che aravano l’aria ondulata riversando grosse lingue di talco». Perché questa è la sensibilità di Wallace. E nei libri di Wallace non leggeremo mai sentenze lapidarie come: «C’era qualcosa di sbagliato in quella città». Perché questo è il mondo visto dagli occhi di King.

Il fatto è che Wallace e King vanno letti insieme. Per capire l’America e la letteratura contemporanea è necessario passare per tutti e due gli autori e leggere quest’unico grande romanzo che hanno scritto insieme, senza saperlo.

C’è una frase che torna spesso in 22. 11. ’63 «La vita è un lancio di monetina». Il caso ha unito questi due libri. La sorte ha voluto intrecciare il destino di due degli autori più letti e amati della narrativa americana contemporanea. Due libri che il “New York Times” ha appena inserito tra i migliori libri del 2011. Il caso ha squarciato una verità critica. Autori diversi e stili opposti vanno osservati insieme. La letteratura è un tentativo raffinatissimo per conoscere il mondo e i sentimenti degli esseri umani. Non è il luogo per tifoserie, è il luogo dell’ascolto. I lettori sono una comunità. Gli scrittori un’orchestra.


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